di Virginia Boddi
Venerdì 26 ottobre, nell’aula magna del Polo Universitario di Novoli a Firenze, si è tenuto un interessantissimo confronto, organizzato dalla Sinistra Universitaria, tra Susanna Camusso (segretaria nazionale della CGIL) e Lucia Annunziata (giornalista, scrittrice, direttore dell’Huffington Post Italia) a proposito della questione “Lavoro e crisi economica, cosa fare per uscirne”; un incontro a cui hanno preso parte e sono intervenuti anche gli studenti.
Il confronto è stato aperto da Lucia Annunziata, che ha affrontato il tema dei giovani, definiti “Bamboccioni” dall’attuale classe politica, appartenente a una vecchia generazione, totalmente differente da quella dei giovani di oggi: non solo per l’età, ma anche per il modo di pensare e la società in cui è nata e cresciuta, assolutamente diversa da quella in cui viviamo oggi. L’attuale crisi non è solamente quella del sistema economico, ma di tutto un sistema che sta esplodendo: se si osserva l’attuale situazione italiana, ci accorgiamo che non è più tempo di governi di partito, di destra o di sinistra che siano, ma di governi “politici-non politici”, a cui non sappiamo come arrivare, ma che si ritiene siano il futuro del Paese.
Lucia Annunziata ha dichiarato: “L’attuale perdita di lavoro, la crisi italiana è il frutto di un egoismo privato delle piccole imprese (causa principale di DEINDUSTRIALIZZAZIONE)”.
È intervenuta poi la Camusso, che ha analizzato il sistema scolastico italiano, un sistema ingiusto per i tagli subìti in questi anni, anche perché vi si accede in base al reddito delle famiglie. Come se l’istruzione fosse “una cosa” riservata solo alle persone con maggiori possibilità economiche. L’obbligo scolastico fino al compimento del quattordicesimo anno d’età permette l’ingresso nel mondo del lavoro molto presto, in una situazione povera di offerte lavorative per i giovani a cui vengono richiesti, sempre di più, una maggior preparazione, sia scolastica che lavorativa. Una formazione che le nostre istituzioni non provvedono a garantire.
Proseguendo nella sua disamina sull’istruzione, Susanna Camusso si è soffermata sull’università e le iscrizioni in calo rispetto agli anni passati, dovute principalmente ai numerosi lavoratori in cassa integrazione, costretti a privare i propri figli dello studio, non essendo più in grado di permettersi tale spesa.
Un altro punto dolente è il tasso di laureati nel nostro paese. Una percentuale molto elevata, cresciuta soprattutto negli ultimi dieci anni, e superiore a paesi come Francia e Germania. Le nostre aziende richiedono sempre più personale istruito, ma non sono disposte ad assumere giovani laureati, cadendo in una vera e propria contraddizione.
L’analisi della Camusso è approdata poi al problema dell’età pensionabile, e alla recente legge del lavoro del 28 giugno 2012 del ministro Fornero; una legge che prolunga l’età lavorativa, rimandando nel tempo l’ingresso dei giovani nel mondo del lavoro, allungando sempre più l’età pensionabile e con essa il ricambio generazionale.
Con i giovani costretti ad appoggiarsi ai propri genitori per periodi sempre più lunghi.
Analisi molto lucida e interessante. Personalmente, credo che la chiave per l’uscita dalla crisi sia credere in se stessi e nel proprio talento. Il lavoro non c’è? Bisogna crearselo, sbattersi, muoversi, usando internet e tutte le risorse che possono nascere da un “networking”, un “far rete” intelligente e per niente peloso-mafioso, come siamo abituati in quella parte (consistente, purtroppo) nell’Italia che è mafiosa nella mentalità, come (andando a memoria) negli ultimi mesi ha detto il magistrato Ingroia. Poi è chiaro, i tempi di riuscita non saranno immediati, e quindi ci sarà una fase di adattamento inevitabile, con tempi di soggiorno anche “genitoriale” allungati: ma almeno da qualche parte si arriverà senza rinunciare al proprio talento o vendere l’anima.
Riguardo alla storia dei bamboccioni, come anche a quella dei giovani schizzinosi (che peraltro esistono, questo è indubbio), certi ministri espressione di un ceto privilegiato – che i figli (sia pur capaci) li hanno parcheggiati in posizioni dorate, dove giovani altrettanto capaci ma non imparentati non sarebbero mai potuti arrivare – dovrebbero solo tacere dignitosamente. Quanto meno.
Bell’articolo, in cui l’autrice ha avuto la sensibilità di limitarsi al resoconto, senza sovrapporsi alle voci delle due relatrici: una nota di merito non indifferente. 🙂
Personalmente trovo che queste tavole rotonde lascino un po’ il tempo che trovano, alla fine mi sembra che si riducano a pourparler abbastanza vacui che nascono lì e muoiono lì. Il far riflettere, il “sensibilizzare” è un buon esercizio dialettico e filosofico, ma poi occorre che seguano i fatti, che inevitabilmente devono passare attraverso i grossi media e i canali istituzionali.
C’è una contraddizone apparente in quanto dice la Camusso: prima parla di iscrizioni universitarie in calo, poi dell’elevato tasso di laureati. Se ci sono meno iscritti alle università, dunque, dovrebbe essere quasi un fattore positivo, visto che un eccesso di laureati rispetto a quella che è l’offerta del mondo del lavoro cosituisce risorsa inutilizzata.
A mio parere andrebbe pensata una diversa organizzazione universitaria, sopprimendo corsi di laurea inutili e indirizzando la scelta degli studenti verso facoltà di cui c’è più bisogno nel mondo reale.
Insomma, non bisogna studiare ciò che piace bensì ciò che serve, e di solito si tratta di roba pesante, dura, faticosa, non di discipline all’acqua di rose
Sicuramente sarebbe il caso di valorizzare lo studio con un’utilità pratica, e studiare solo se ci si sente veramente “vocati” a una disciplina. Circa l’utilità/non utilità, beh, in fondo credo si tratti di valori molto relativi. Io ho studiato legge, e a parte le mie scelte vocazionali e artistiche, oggi il lavoro non sovrabbonda certo, per gli avvocati, con tutto quel che si diceva sull’utilità del diritto, quindici anni fa. Però penso che tanti corsi puramente teorici servano davvero a poco, se non a giustificare cattedre di ordinari dallo stipendio imbarazzante. Mentre si stanno sopprimendo corsi di lingue e letterature cosiddette minori, come quella polacca (quando si tratta della quarta o quinta, ora non ricordo, lingua parlata nell’Unione Europea). E comunque concordo nel dire che “fare quello che piace” (valore in sé molto importante) conta solo se si riesce a renderlo un’attività pratica e fruttuosa. Studiare – come del resto scrivere – per “hobby” sarebbe, questo sì, una cosa da ricchi spocchiosi (o da paraculi con le spalle protette da qualcuno).
Legge è un’altra cosa, Giovanni. Anzitutto è professionalizzante: senza il titolo, non puoi fare l’avvocato, mentre ci sono facoltà che ti assegnano titoli in discipline esercitabili anche senza laurea.
In secondo luogo è una facoltà faticosa, dove chi si iscrive deve sputare un po’ di sangue, non va in villeggiatura.
Poi, come dici tu, la richiesta del mercato di 15 anni fa era molto diversa da quella di adesso.
Per facoltà inutili intendevo altre, forse più “interessanti” ma che non danno sbocchi.
In questo senso sono molto utili le statistiche, che dicono che quasi il 90% dei laureati in medicina trovano lavoro entro un anno dal conseguimento della laurea.
Quindi a un ragazzo di 19 anni oggi consiglierei di iscriversi a medicina o a una delle poche altre facoltà che danno ragionevoli garanzie di un futuro professionale. Se quelle non gli piacciono, meglio che vada a lavorare con il diploma di scuole superiori.
…mi inserisco nell’interessante botta e risposta tra roberto e giovanni, ai quali mi unisce (spero) la stima reciproca ma mi separa, ahimè, qualche anno in più di carta d’identità…su una cosa mi permetto di dissentire, e cioè l’indirizzare la scelte universitarie in funzione di ciò che serve e non di ciò che piace. Sono figlio di una generazione, quella anni Ottanta tanto per capirsi, che può ritenersi fortunata ad aver avuto la possibilità di progettare il proprio futuro senza troppi punti interrogativi e senza dover gioco forza scegliere in base a criteri di pura e semplice opportunità. Intendiamoci, neppure per noi l’affermarsi è stato semplice, ma quel che mi viene da consigliare ad un giovane di oggi è di seguire le proprie inclinazioni, assecondare i propri desideri (che non devono, comunque sia, essere privi di fondamenta)…solo così facendo potranno pensare, sperare, di sfruttare appieno il talento di cui dispongono e magari, un domani che rimane molto più incerto di quanto non lo fosse per noi “vecchietti”, non provare frustrazione per la strada percorsa…
La stima è senz’altro reciproca, Nicola. Parlo a nome mio ma (ne sono convinto) vale anche per Giovanni.
La tua visione è ragionevole e sensata, umanamente più idonea della mia a soddifare e a sviluppare l’individuo (ma anche il contesto in cui egli vive).
Solo che, dal mio punto di vista utilitaristico di individuo arido, lo studio prima che uno strumento per arricchire la persona è un investimento per il futuro. E io sulle azioni Parmalat magari non investo, anche se mi piace il latte. 🙂
Posso dichiarare col megafono che Roberto Furlani NON è una persona arida… semmai (come la sua autodefinizione evidenzia) molto, anzi troppo modesta. Peraltro, credo che oggi (lo diceva anche Saviano tempo fa in TV) convenga molto più che in passato puntare sulle proprie passioni, in quanto è comunque tutto molto più difficile, anche quello che non piace. Tuttavia, una passione senza spirito concreto è altrettanto inutile, se non dannosa, quanto un lavoro pratico ma non sentito. La prima non dà il pane, il secondo toglie l’aria. Servono tutte e due le componenti. E allora aguzziamo l’ingegno e cerchiamo di rendere fruttuoso quello che amiamo. Non restano molte altre scelte.
Riguardo a Medicina, beh, qualche riserva ce l’ho. E’ un lavoro di tale responsabilità e delicatezza che se uno non ci si sente chiamato intimamente rischia di pagarne le conseguenze qualcun altro… magari sotto i ferri!…
Ti ringrazio per avermi definito “sin troppo modesto”, Giovanni. 🙂
Il tuo ragionamento mi ha ricordato quello che mi ha detto qualche tempo fa mia sorella, che si è iscritta all’Accademia delle Belle Arti.
“Tanto non si trova lavoro comunque” ha chiosato, “almeno faccio ciò che mi piace.”
Ci sta, e alla fine è una questione di scelte: se tiri la coperta da una parte è probabile che resti nudo dall’altra.
Non tutti sono come te che riescono a coniugare passione ad autosostentamento, anzi, mi sembra una cosa rara di cui andare orgogliosi.
Certo, Roberto, non in tutti i campi è facile. Voglio dire, pur avendo io goduto dell’aiuto della mia famiglia, soprattutto dopo che (in sostanza, mancavano solo le nozze) sono rimasto vedovo, e pur avendo attraversato momenti difficili, con la crisi, ho la fortuna di lavorare in un ramo, quello letterario e linguistico, che consente di avere il mondo racchiuso in un portatile. E questo non è possibile per tutti, purtroppo. Paradossalmente, se fossi un avvocato, ovvero se facessi un lavoro più coerente con i miei studi universitari, sarei molto più in difficoltà, da questo punto di vista, per il semplice fatto di dovere per forza misurarmi con la dimensione “locale”, ovvero di essere geograficamente vincolato.
Per il resto, se tua sorella studia Belle Arti, non mi preoccuperei più di tanto, perché conosco delle ragazze che fanno le restauratrici e guadagnano piuttosto bene. L’importante è tenere la mente aperta e le antenne sensibili a cogliere i segnali e le opportunità. E poi curare la propria centratura emotiva. Più sei centrato, più (me lo insegna l’esperienza) le occasioni arrivano. E’ come in amore: più cerchi la donna giusta, meno la trovi. Ma se stai bene, magari l’incontro arriva.