STORIA DEI MANICOMI: LEGGE BASAGLIA E SOCIETÀ CIVILE

di Claudia Boddi

“Storia dei manicomi: legge Basaglia e società civile”

Abbiamo già avuto la possibilità di trattare, su questo portale, il tema della malattia mentale. Anche in quella occasione, il focus della nostra analisi fu puntato sul rapporto – sempre di carattere complesso – che intercorre tra società civile e istituzione psichiatrica. Con quel contributo, abbiamo voluto far luce sugli scandali manicomiali e sulle condizioni dei luoghi di segregazione, più che di cura, nei quali i pazienti erano relegati durante il secolo scorso. Prima cioè che Franco Basaglia (e alcuni altri illustri) avviassero quel processo di cambiamento che porterà infine a considerare il malato, da sorvegliato di polizia ad utente dei servizi e la patologia mentale, da oggetto di ordine pubblico ad oggetto, anzi soggetto, di prevenzione e terapia.

Franco Basaglia - massimopolidoro.com

Franco Basaglia – massimopolidoro.com

“È già passato più di un quarto di secolo da quando, per la prima volta, fu fatta presente al Parlamento l’urgente necessità di una legge sui manicomi e sugli alienati, la quale circondasse uniformemente tutto il Regno di garanzie efficaci, nel pubblico come nel privato interesse, la tutela della libertà individuale e delle sostanze dei folli non meno che di ogni altro cittadino” (Atti parlamentari, Giolitti, 1902). Le parole di Giolitti al Parlamento si inseriscono in un tessuto sociale dalla prospettiva ristretta e miope, più attenta alle presunte esigenze di sicurezza e di ordine del corpo comunitario che ai suoi reali bisogni di crescita civile, di libertà di espressione e di acquisizione di presidi anche nel campo assistenziale e sanitario. Il rapporto società – malato veniva quindi definitivamente stabilito, senza mediazione alcuna, in termini di frattura e di esclusione.

Quando nel 1940, Sullivan afferma che il nucleo della psichiatria è lo studio delle relazioni interpersonali”, le sue idee non possono neppure essere recepite dalla psichiatria istituzionale italiana, ingabbiata in un modello operativo anacronistico e rigido che l’aveva abituata da tempo a una pratica clinica caratterizzata in primo luogo dalla perdita di ogni raporto con il suo oggetto. L’approccio impostato sulla pericolosità sociale del malato ha continuato per molti anni ancora a imperversare, così come l’organicismo che regnava incontrastato (o quasi). Bisognerà aspettare, in prima battuta, il 1968 e la legge n. 431 che abolisce l’obbligo di annotazione dei provvedimenti di ricovero dei malati mentali nel casellario giudiziario che traghetterà il modello riformista verso quello territoriale che ha iniziato a vedere la luce nel 1978 con le due leggi (n. 180 cioè la “Legge Basaglia” e n. 833) fondamentali per la riorganizzazione sanitaria.

Due norme ad alto contenuto civile, nel testo delle quali non compaiono mai la pericolosità o il pubblico scandalo e che, al contrario, propongono concetti come la plurideterminazione delle malattie mentali, la necessità di affrontarle attraverso strumenti flessibili e complessi quali l’équipe e la pluralità dei presidi, l’obbligo di ricollegare la prevenzione, la cura e la riabilitazione del malato con la struttura sanitaria, sociale e assistenziale locale. E infine la necessità di combattere stereotipi antichi e infondati, che rasentano la superstizione, ancora radicati nella società affinché essa possa vivere la malattia e il malato come una parte di sé e non come un fenomeno esterno ed estraneo da emarginare e da esorcizzare.   

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