ENRICO MACIOCI, “BREVE STORIA DEL TALENTO”

di Giovanni Agnoloni

Enrico Macioci, Breve storia del talento, Mondadori, 2015

Enrico Macioci 2Il calcio, in Italia, è uno sport che ha sempre affascinato non solo gli sportivi, ma anche persone che sono semplicemente interessate alle realtà regionali e locali. Il calcio di provincia, in particolare, è un concentrato di passione e tradizione, povertà, fame (di pane ed emancipazione, almeno una volta) e speranza. Tutte queste dimensioni riecheggiano, compresse e scanalate come in un accordo arpeggiato, in Breve storia del talentosecondo romanzo di Enrico Macioci dopo l’esordio La dissoluzione familiare.

Uno dei motivi d’interesse di questo libro è appunto il fatto che si svolge in provincia (ci troviamo a L’Aquila, città natale dell’autore, e si prenda dunque il termine con tutto il rispetto, atto solo a distinguere una piccola città di nobile tradizione dalle – sia pur relative – metropoli dello Stivale).

Fin dalla prima pagina, e soprattutto nei frammenti di azione calcistica che aprono ognuna delle tre sezioni del romanzo, intuiamo la pietrosità di questa terra, la ciottolosità dei campetti in cui si svolgono le partite di un gruppo di ragazzi, e in particolare i “duelli” tra il protagonista-io narrante e “il grande Michele”, un autentico prodigio in erba, capace, per puro talento naturale, delle più perfette prodezze, che sembrano perfino superare – nello stesso 21 giugno 1990, giorno del bellissimo gol di Roberto Baggio contro la Cecoslovacchia ai Mondiali italiani – i più raffinati “maghi” del pallone.

Michele è l’asintoto del narratore, il punto dove lui sa che non riuscirà mai ad arrivare, pur provandoci con tutto se stesso. Ma è anche, in un’occasione, fonte di un vago turbamento sessuale, in un’età “di formazione” in tutti i sensi, l’adolescenza. Al tempo stesso, intorno a lui si dispiega un ventaglio di amicizie, soprattutto femminili, che generano attrazione, desiderio e – spesso – frustrazione.

Enrico Macioci riesce a cogliere in tutta la sua verità un’età che può ospitare la più grande apertura e albergare le più cocenti delusioni. Un’età essa stessa di pietra, come una prigione dalla quale è impossibile fuggire. Eppure, il calcio è un terreno, almeno potenziale, di rinascita; è il campo in cui – come dice Michele – si può sempre provare, anche quando sembra che non residuino più possibilità di cambiamento.

E poi ci sono degli squarci improvvisi di tragedia e incanto, spesso confinanti tra loro. Come quando uno dei ragazzi del gruppo, entrato nel giro della droga, viene ucciso da soggetti pericolosi ma ben protetti, e il parroco, Padre Lucky, non riesce a trovare parole di speranza e pare arrendersi all’inevitabilità della tragedia, pagando poi personalmente per i contenuti della sua omelia. Dalle pagine di Macioci, in questo senso, emerge una sorta di mistica “in negativo”, implicita nelle cose, còlte nella loro materialità e fallibilità.

Michele stesso fallirà come calciatore, il narratore diventerà uno scrittore e andrà a vivere altrove. Al ritorno, resteranno ad aspettarlo l’angoscia di una rivelazione e un pugno di terra mescolato a ricordi fatti cose, portatori dell’energia concentrata di tutta una fetta di vita.

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