di Nicola Pucci
Prende avvio oggi sulle pagine di questo blog una nuova rubrica dedicata ai siti che l’UNESCO cataloga tra i Patrimoni dell’Umanità. Un lungo percorso che toccherà luoghi straordinari per il carico di storia che si portano dietro, per gli usi e costumi che rappresentano, per l’ineguagliabile senso di magnificenza che sono in grado di produrre in chi ha la fortuna di scoprirli.
Ci trasferiamo nell’America Centrale, in Messico per la precisione, ed è una delle sette meraviglie del mondo ad accoglierci con tutta la sua suggestione: le rovine maya – e tolteche – di Chichén Itzà, dal 1988 catalogate in questa ambita lista.
Le rovine occupano un’area decisamente vasta ed appartengono ad un’antica città che fu uno dei centri più importanti di tutta la penisola dello Yucatan nel periodo compreso tra il VI e l’ XI secolo. Il suo nome significa, letteralmente, “alla bocca del pozzo degli Itzà” e deriva dalla presenza in quest’area, arida d’acqua, di due pozzi naturali larghi e profondi, i “cenotes“. Abitata in principio dal gruppo etnico degli Itzà , si sviluppò soprattutto in era classica finale quando il suo dominio politico, culturale ed economico si estese a tutta la regione settentrionale maya.
Entriamo nella zona archeologica accorgendoci ben presto che qui i tour operator hanno prodotto risultati, ahimè, soddisfacenti: se siamo abituati, bene, al turismo fai da te, riservato agli intenditori, a Chichén Itzà dobbiamo invece condividere lo scenario con le innumerevoli comitive accompagnate alle rovine dai lidi della Riviera Maya poco distante. Tutto il popolo di Cancun e Playa del Carmen è qui, ad ammirare un patrimonio che forse meriterebbe occhi diversi. Pazienza. Dopo aver percorso un breve sentiero alberato “tappezzato” di venditori di souvenirs si apre davanti a noi una spianata al centro della quale domina in tutta la sua stupefacente grandezza El Castillo: semplicemente straordinario.
L’edificio più celebre del sito, chiamato anche tempio di Kukulcan – ovvero il serpente piumato, la divinità maya che corrisponde a quella tolteca di Quetzalcoatl -, fu costruito intorno al IX secolo d.C. e fonde perfettamente elementi architettonici maya con quelli toltechi. La base a pianta quadrata con gli angoli arrotondati è sormontata da nove piattaforme che raggiungono un’altezza di 30 metri; il portale alla sommità del tempio è ornato con incisioni di guerrieri toltechi. La piramide si compone di quattro scalinate, quella della fronte principale a nord termina con le sculture di una testa di serpente con le fauci spalancate. Gli storici sono ormai concordi nel ritenere che al Castillo sia da attribuire un significato cosmologico, rappresenti cioè non solo il calendario dei Maya ma tutta la loro concezione astronomica. Le quattro scalinate sono ciascuna di 91 gradini che, sommati e aggiunti al tempio sulla sua sommità, danno un numero totale di 365, quanti sono i giorni del calendario. Non solo, le quattro scalinate dividono le 9 piattaforme in 18 terrazze, ognuna a rappresentare i 18 mesi (ciascuno di 20 giorni) dell’Anno Vago, il calendario maya e su ogni facciata ci sono 52 pannelli di stucco che rappresentano a loro volta i 52 anni del secolo maya. A completare questa stupefacente visione cosmica si aggiunge, durante gli equinozi di primavera ed autunno, un particolare gioco di luci ed ombre che disegna sul lato nord della scalinata un’immagine molto simile a quella di un serpente che striscia verso l’alto (a marzo) o verso il basso (a settembre). Ci piacerebbe poter assistere a questo singolare fenomeno non del tutto casuale, ahimè non abbiamo abbastanza tempo a disposizione per rimanere fino al calar della notte, come purtroppo non ci è permesso salire al tempio e neanche accedere, attraverso El Tunel che parte dalla base nord, alla piramide interna che accoglie la scultura di Chac Mool e il trono del giaguaro rosso in cui sono incastonati inserti di giada e conchiglie.
Confusi tra i tanti visitatori ammiriamo El Castillo aggirandolo da ogni lato, passiamo poi ad un altro vanto del sito, il Gran Juego de Pelota, l’arena più grande di tutto il mesoamerica con i suoi 168 metri di lunghezza e 70 di larghezza. Lo stadio è delimitato da alte pareti parallele dove sono ben fissati gli enormi anelli in pietra con figure di serpenti intrecciati attraverso i quali i giocatori dovevano far passare la palla; i rilievi con scene raffiguranti la decapitazione degli sfortunati perdenti confermano, caso mai se ne sentisse il bisogno, quanto cruento e violento fosse il gioco della palla ai tempi dei Toltechi. Dall’altro versante del campo si ha modo di provare la straordinaria acustica dello stadio, basta un richiamo ad alta voce e si sente risuonare, nitida, un’eco lunga e forte.
All’estremità settentrionale del Gran Juego de Pelota si trova il Templo del Barbado – tempio dell’uomo barbuto, nome che deriva da un rilievo ospitato al suo interno – mentre in cima all’angolo sud-orientale il Templo de los Jaguares y Escudos presenta interessanti colonne tolteche sulle quali sono scolpiti serpenti a sonagli e tavolette raffiguranti giaguari; la pittura murale, o almeno il frammento che ne resta, all’interno del tempio rappresenta una battaglia con guerrieri toltechi all’assalto di un villaggio maya guidati da un serpente piumato.
Usciamo dallo spazio “sportivo” e ci troviamo al cospetto della struttura più macabra ed inquietante di tutta la zona archeologica: la Plataforma de los Craneos, ovvero dei teschi. Si tratta di una piattaforma rettangolare a T dove fa bella mostra di sé un interminabile allineamento di crani scolpiti e di aquile che dilaniano il petto di uomini per divorarne il cuore: sembra che un tempo su questa piattaforma venissero impalate le teste dei prigionieri sacrificati agli dei.
Oltrepassata la Plataforma de Venus che presenta rilievi raffiguranti il simbolo del pianeta Venere, un essere metà serpente e metà uccello – Quetzalcoatl, appunto -, da dove si idolatrava la stella del mattino, proseguiamo senza esitare la nostra visita che ci porta ora a scoprire, alle spalle del Castillo, il Grupo de las Mil Columnas che comprende il Templo de los Guerreros, il Templo de Chac-Mool, El Mercado e il Bano de Vapor. Troviamo qui allineate innumerevoli colonne e pilastri, spesso scolpite a bassorilievo, il cui uso a sostegno delle coperture rappresentano il più significativo tentativo di integrazione fra spazi interni ed esterni di tutta la penisola dello Yucatan a partire dalla fine del Periodo Classico.
Il Templo de los Guerreros, che deve il suo nome alle sculture di uomini piumati e armati di lancia che ornano i pilastri del tetto, sorge alla sommità di una piramide a base quadrata suddivisa in quattro livelli degradanti secondo la classica combinazione del talud tablero. L’ingresso superiore al tempio, anche questo purtroppo proibito ai turisti, è indicato da una statua di Chac Mool mentre nella parte destra sono ben visibili mirabili fregi scolpiti con aquile e giaguari che divorano cuori umani, motivo decorativo caro ai Toltechi. Come ricorrente nella cultura tolteca è proprio Chac Mool, personaggio seduto sul dorso che regge tra le mani appoggiate all’addome un piatto per le offerte: spesso identificato come un messaggero divino, più probabilmente va considerato come una divinità legata all’acqua, alla fertilità o al fuoco.
Andiamo oltre. A sud del colonnato svoltiamo a sinistra, qui troviamo El Mercado, costruzione aperta a pianta quadrata con snelle colonne sormontate da capitelli a dado, delimitato a nord dal Bano de Vapor; concediamo a quest’ area del sito una fugace occhiatina, le nostre gambe, complice il gran caldo, fanno fatica a soddisfare gli impulsi che provengono dalle nostre teste che ambirebbero a non perdersi una sola zolla di terreno di queste meravigliose rovine.
Non ci resta, a questo punto, che visitare la zona meridionale di Chichén Itzà, la raggiungiamo in pochi minuti percorrendo un breve sentiero che prende avvio subito alle spalle della facciata posteriore del Castillo. Certo, c’è molta gente ma ciò non ci impedisce di ammirare compiutamente le bellezze che Maya e Toltechi sono stati in grado di costruire da queste parti. Incontriamo subito, alla nostra destra, la Tumba del Gran Sacerdote, comunemente chiamata Ossario; parzialmente in rovina, si tratta di una piramide molto simile al tempio di Kukulcan – seppur di dimensioni notevolmente più ridotte – che racchiude un pozzo scavato in una struttura precedente che sbocca nel pavimento del tempio nel quale fu rinvenuta la tomba di un sacerdote. In prevalenza edificio maya in purissimo stile puuc (come quasi tutta la zona sud del sito), merita attenzione per le teste di serpente scolpite alla base della scalinata d’accesso. Poco più avanti c’è la Casa Colorada, chiamata così per il colore rosso dominante all’interno dell’edificio, che presenta nella sua parte superiore un fregio geometrico dove compare Chac, il dio della pioggia.
Non paghi giungiamo a El Caracol, struttura tra le più importanti e misteriose dell’intero sito archeologico e che si para davanti a noi nella spianata che occupa la zona sud di Chichén Itzà. L’edificio, posizionato su un terrazzo a due ripiani, fungeva da osservatorio astronomico e denuncia, inequivocabilmente, la commistione anche qui di elementi maya e toltechi. Maya è l’utilizzo di mensole a volta e la presenza decorativa delle maschere di Chac, tolteca è la pianta circolare e il motivo ornamentale del serpente piumato che compare lungo la scalinata frontale. Quattro porte permettono di accedere all’interno dove due corridoi conducono ad una struttura centrale circolare da dove partiva una scala a chiocciola, appunto il caracol (letteralmente”la lumaca”), che portava alle camere superiori. Quassù, nella cupola, i sacerdoti, da aperture orientate in una precisa direzione a seconda dell’osservazione astronomica del movimento del sole e della luna, stabilivano quali fossero i momenti propizi per i rituali, le celebrazioni, la semina del mais e il raccolto. La costruzione è interessante e non nascondiamo una certa curiosità nell’addentrarci, su per i gradini, nelle stanze ancora quasi intatte del piano terra. Sporgendosi dalle piccole finestre in pietra, non proclameremo fulmini e saette per il genere umano ma si può godere il sole e il bel cielo azzurro che fa da cornice allo scenario, suggestivo, di cui possiamo essere testimoni. Qualche immancabile foto di circostanza, una breve pausa e poi raggiungiamo l’ultima parte delle rovine, poco lontane.
E’ il complesso des Las Monjas (cioè delle monache), così chiamato perché quando fu scoperto ricordava ai conquistadores l’articolazione dei conventi ed è senza dubbio la struttura più raffinata che Chichén Itzà possa vantare. Anche questo in puro stile puuc, era in realtà la residenza dei notabili della città ed è composto da una costruzione piramidale a pianta rettangolare sulla cui prima terrazza si eleva il tempio. L’archeologo francese Le Plongeon, furbo, fece saltare con la dinamite la struttura per aprirsi un varco e vedere cosa contenesse l’interno, oggi non è rimasto granchè dell’edificio primordiale. A fianco di questi poveri resti, nel vero senso della parola, c’è l’annesso, un edificio con l’ingresso a forma di fauci spalancate del dio Chac, e la Iglesia, piccolo ma splendido tempio anche questo totalmente ricoperto con elaborate decorazioni; ai lati del mascherone centrale di Chac compaiono i “bacabs”, ovvero atlanti che reggono la volta celeste, mentre una “cresta” – eccolo qui il più caratteristico elemento dell’architettura maya – poggia direttamente sulla sommità della facciata.
E’ tardi. Fatica e caldo hanno ormai riempito di acido lattico i nostri muscoli, la visita è terminata e ce ne torniamo verso l’entrata. Prima di uscire dalla zona delle rovine, però, percorriamo un accidentato vialetto pavimentato e in leggera ma costante contropendenza che in circa 300 metri conduce al Cenote Sagrado. Perfettamente rotondo e profondo 60 metri, con pareti alte 20 metri, è il grande pozzo naturale che diede il nome alla città e che venne usato in antichità per brutali riti tribali. Il dragaggio del pozzo e il ritrovamento sul fondo di scheletri umani, oltrechè di manufatti, fa pensare che sacrifici venissero perpetrati in onore del dio della pioggia, il mai abbastanza ricordato ed idolatrato Chac. Secondo i racconti di Diego de Landa, cronista spagnolo del Cinquecento al seguito dei conquistadores, i sacrificati venivano gettati nel cenote all’alba; chi a metà giornata era riuscito a sopravvivere veniva ripescato e nominato indovino per il resto dell’anno.
Lasciamo il sito archeologico, non prima però di aver “raccolto” le nostre emozioni. Ci accompagnano, catturate dai nostri occhi e ben impresse nella nostra memoria, le immagini indimenticabili di un luogo di straordinario fascino, testimonianza di una cultura antica ma evoluta a tal punto da essere ancora oggi oggetto di attenzione massima da parte degli addetti ai lavori. Certo, i Maya praticavano il rito cruento del sacrificio umano, da spendere in nome del favore degli dei, ma hanno tramandato un bagaglio di conoscenze in materie quali architettura ed astronomia assolutamente ineguagliabile ed ineguagliato per secoli: giù il cappello.
Grandi suggestioni, richiami esotici. Un articolo che invita a partire.
Più che l’articolo è il magnetismo del luogo che invita a preparar fagotto e mettersi in viaggio…comunque Giovanni grazie per l’apprezzamento, a buon rendere!!!