LIVING IN THE MATERIAL WORLD: GEORGE HARRISON, IL TERZO UOMO

Il primo singolo dei Beatles, Love me do, uscì nel 1962 e cinquant’anni dopo, per un solo giorno, esce nelle sale cinematografiche George Harrison: Living in the material world, documentario-tributo di Martin Scorsese incentrato sulla vita di George Harrison. Il regista statunitense che ha stupito di recente con Hugo Cabret, stavolta ci racconta la musica del gruppo più amato, attraverso la biografia della rock star meno appariscente, dall’infanzia al successo planetario, con immagini e testimonianze inedite. Ne avevamo già parlato qualche tempo fa, nella categoria musica. Riproponiamo il pezzo di Leonardo Masi sul componente dei Fab Four, il terzo uomo, quello tranquillo.

di Leonardo Masi 

“Io non sono tranquillo, sono gli altri che fanno troppo casino” 

JOHN ENTWISTLE

 

A dieci anni dalla scomparsa di George Harrison esce un documentario sul chitarrista girato da Martin Scorsese, distribuito in Italia per un solo giorno, il 19 aprile. In realtà il film, che si intitola George Harrison: Living in the material world, non ha entusiasmato i critici, i quali hanno di fatto notato che il peccato originale è nella scelta di un soggetto poco interessante. Ma forse il fascino di Harrison, il Quiet Beatle, sta proprio nel non voler apparire interessante, nel suo incessante volersi sottrarre al ruolo di rock star. Dhani Harrison, il figlio di George, nato nel 1978 (dunque otto anni dopo lo scioglimento dei Beatles) racconta che fino all’età di sette anni era convinto che suo padre facesse il giardiniere, perché lo vedeva sempre sporco di terra intento a piantare alberi. Solo quando a scuola un giorno i compagni lo rincorsero cantando Yellow Submarine e lui chiese spiegazioni al padre, quello gli rispose: “Ah, sì, facevo parte dei Beatles, scusa, mi ero dimenticato di dirtelo”.

Living in the material world (mymovies)

Da questo lungo (tre ore e mezzo) documentario di Scorsese, che ho avuto modo di vedere a Varsavia, viene fuori che Harrison era un uomo molto meno tranquillo di quanto sembrasse, un personaggio pieno di sfaccettature e di interessi. A parte aver scritto per il gruppo canzoni stupende come While my guitar gently weepsWhitin you without youSomething o Here comes the sun, Harrison ha inciso molto sul sound della canzoni non sue – lo stesso McCartney ammette che la sua And I love her non sarebbe quello che è senza quel tema di quattro note alla chitarra classica che apre il brano. Chitarrista dallo stile personalissimo (poche note, ma incisive) Harrison ha introdotto nella musica e nei testi dei Beatles l’elemento “indiano”, fondamentale nei dischi del quartetto dal 1965 in poi (dall’uso del sitar nel brano Norwegian wood). A livello di immagine il musicista sembra invece aver inaugurato la figura – che  diventerà quasi archetipica – della rockstar tranquilla, dell’elemento equilibrato nelle rock band con due leader (o con un leader ed un frontman). Tuttora, mentre sostengono la superiorità o meno di John Lennon su Paul McCartney o quella di Roger Waters su David Gilmour, molti dimenticano come George Harrison per i Beatles o Richard Wright per i Pink Floyd abbiano rappresentato il “tessuto connettivo” (dal film di Scorsese ho avuto l’impressione che l’equilibrio magico che teneva insieme i fab four si sia rotto proprio quando il chitarrista si è stufato di fare l’ago della bilancia e ha cominciato a credere di più nel proprio talento creativo). I terzi uomini furono importantissimi per molti gruppi, come gli Who e i Led Zeppelin, dove mentre le coppie Roger Daltrey-Pete Townshend e Robert Plant-Jimmy Page facevano il diavolo a quattro sul palco, John Entwistle e John Paul Jones macinavano i loro virtuosismi in disparte. Ma quanta energia nelle linee melodiche (dei veri e propri assoli) del “Jimi Hendrix del basso” Entwistle! Che piglio in quegli intro alle tastiere di John Paul Jones (vedi con che energia attacca Trampled under foot a Earl’s Court nel 1975)! Il buon John Paul non si sarebbe mai sognato di interrompere una canzone per mettersi a fare lo sborone come fa Jimmy Page in Heartbreaker o come John Bonham in Moby Dick, ma la sua abilità di bassista è fuori discussione.

Harrison diceva: “A volte mi sembra di essere sul pianeta sbagliato e quando me ne sto nel mio giardino è fantastico, ma appena esco dal cancello penso: che diavolo sto facendo qui?”. Jones e Wright dal canto loro pensarono più volte di lasciare le rispettive band per starsene tranquilli. E forse fu per lasciarli tranquilli che poi, quando Page e Plant decisero di fare una reunion, a John Paul neanche gli telefonarono, e per di più intitolarono il proprio disco No quarter, che era il titolo di un cavallo di battaglia del vecchio suonatore Jones. E forse fu per non imbarazzare il tastierista che quando Gilmour e Mason, senza Waters, decisero di fare un nuovo disco a nome Pink Floyd il nome di Wright, che se n’era andato per l’album precedente, lo scrissero più piccolo dei loro nei credits. Alla faccia della gratitudine! John Entwistle invece risolse la faccenda alla sua maniera. Fu lui a chiamare nel 2002 Daltrey e Townshend per proporre loro di rimettere insieme gli Who e aiutarlo a pagare un sacco di debiti. Ma la sera prima del concerto inaugurale a Las Vegas il bassista, che era dotato di uno spiccato humour nero, pensò bene di morire.

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