QUANDO IL TABÙ DELLA MORTE IRROMPE NEL QUOTIDIANO

di Francesco Gori

La morte è un tabù del quale mai si parla, se non in occasione di un evento ad hoc, che irrompe nel quotidiano. È un tarlo che staziona nella nostra mente dal giorno in cui ci siamo resi conto che moriremo, perché l’uomo è l’unico animale consapevole di dover morire, e questo è il prezzo dell’umana condizione. Un disagio oggettivo che però malvolentieri si comunica.

“Il settimo sigillo” di Ingmar Bergman e la partita a scacchi tra la morte e il protagonista Antonius (foto wikipedia)

Quando si verifica  la scomparsa di un personaggio famoso si scatena in noi questa consapevolezza, ed ecco che si cerca di osannare la morte, per anestetizzarla, dandole lo spazio che non le diamo ogni giorno. Gli esempi potrebbero essere  migliaia. Ma l’idea di questa riflessione su come la società affronta il tabù della morte parte dall’ultimo lutto che ha colpito l’arte italiana: quello di Lucio Dalla, simbolo della canzone italiana, colpito improvvisamente da un infarto. Cosa è successo immediatamente dopo la morte di Lucio Dalla? Il solito teatrino di messa in scena dell’orrido, da parte della maggior parte di noi. I messaggi sui social network dilagano, le condivisioni delle canzoni avvengono ogni cinque secondi. Infine la spettacolarizzazione mediatica del funerale. Lucio Dalla non è mai stato così famoso. Deve ringraziare la morte. Tutto questo non per svilire le eccezionali qualità di Lucio Dalla e il giusto onore che gli va tributato, quanto per sottolineare una stortura della nostra società che ci “obbliga” ad esternare pubblicamente il nostro “dolore” per la scomparsa di un mito.

Un caso tra le migliaia, esempi ne sono quelli recenti di Whitney Houston, di Marco Simoncelli, di Amy Winehouse… Grandi artisti, atleti, uomini e donne che vengono improvvisamente a mancare. Oppure mi viene in mente Papa Wojtyla, la cui fine creò uno sconquasso collettivo che andava ben oltre il panorama dei fedeli. Un mio parente stretto – che religione e spiritualità non sa neanche cosa siano – voleva addirittura partire per Roma, andare a S.Pietro. E quanti l’hanno fatto. Anche qui, rispetto e preghiera per una figura storica della Chiesa, ma l’accento sull’esagerazione di massa è inevitabile.

La verità è che tutto nasce dalla povertà di spirito e dalla non consapevolezza con la quale agiamo. Ci rendiamo conto che il “famoso” non c’è più, e ce ne duoliamo oltremisura. Chi ha veramente apprezzato la sua vita, chi era fan sfegatato, è legittimato a ricordarlo, anzi deve farlo. Ma possibile che il 90% sia sempre un tifoso accanito del morto? Da sempre o è solo un post-ultras? Possibile che una percentuale così alta commenti, condivida, metta foto del morto sul profilo facebook, ed esprima autentiche parole di lutto? Il più delle volte pare solo glorificazione della morte. Che nasce dalla necessità di “cornificare” la propria, dal formalismo che ci hanno insegnato, dalla volontà di apparire sempre e comunque, perché mai come in un lutto grandioso il palcoscenico è più appetibile e lo spazio per ricevere apprezzamenti individuali perfetto.

Non c’è tempo. La sera chiami qualcuno e dici che stai bene, la mattina dopo sei svanito nell’universo. Ci facciamo carico del fardello e cerchiamo di allontanare lo stanziamento temuto sull’assillo principale della nostra vita, con il fare: spammando bacheche, inoltrando messaggi su messaggi.

Glorificando il poveraccio di turno, ci si sente anche più buoni, rispettosi, si svolge una condoglianza reale – gli sconosciuti al funerale della star potranno dire, “Io c’ero” – o informatica doverosa, si dà modo alla nostra parte pomposa di trovare la tanto amata formalità.

Perbenismo, falsità e paura si sposano nel nome dell’apparenza, in un matrimonio di cattivo gusto.

2 Comments

  1. Giovanni Agnoloni 08/03/2012
  2. sandro 08/03/2012

Leave a Reply

This site uses Akismet to reduce spam. Learn how your comment data is processed.