di Giovanni Agnoloni
Non pensavo, andando a vedere il primo atto della trilogia filmica de Lo Hobbit di Peter Jackson (Lo Hobbit – Un viaggio inaspettato), di fare il confronto con il libro di J.R.R. Tolkien. Speravo piuttosto di ritrovarvi lo spirito, la gemma di energia che anche nel romanzo era presente, e che Il Signore degli Anelli avrebbe poi portato a piena maturità. E il film non mi ha affatto deluso.
Mi chiedevo come si potesse dividere efficacemente in tre parti una storia ricca e intensa, sì, ma non lunga e articolata come quella del capolavoro del Professore di Oxford. E invece Peter Jackson (senza dimenticare gli sceneggiatori Guillermo del Toro, Fran Walsh e Philippa Boyens), ha fatto un lavoro egregio. In nessun momento del film, che si sviluppa dall’inizio del libro di Tolkien al momento in cui le Aquile salvano Bilbo e i suoi compagni dagli Orchi e dai Mannari, si ha la sensazione di trovarsi davanti a un “brodo allungato”.
Gran parte del merito di ciò è dovuto alle sapienti ricuciture e inserzioni, che ricollegano gli eventi de Lo Hobbit al suo magistrale seguito (penso alle prime scene, con Ian Holm – Bilbo anziano – ed Elijah Wood – Frodo – che si preparano al compleanno di Bilbo) e approfondiscono nessi e interazioni con lo scenario più ampio degli eventi della Terra di Mezzo, nell’epoca di transizione in cui l’Ombra di Sauron (il Negromante) torna a manifestarsi nell’Est del mondo (in questo senso, penso soprattutto all’ampio ruolo svolto da Radagast, lo Stregone “Bruno” – interpretato da Sylvester McCoy e qui, diversamente dal romanzo, un personaggio-chiave – che protegge le creature del bosco e percepisce per primo l’energia oscura proveniente da Dol Guldur). Peter Jackson rispetta e riproduce – pur prendendosi varie libertà, relativamente alla trama – i vari livelli di lettura dell’intero Legendarium tolkieniano, con cenni anche agli eventi della Prima Era (e dunque al Silmarillion: rinvio a una possibile futura serie di film ispirati al grande “libro dei libri” del Professore?).
La prima parte de Lo Hobbit – Un viaggio inaspettato è intrisa del senso di pace e di amore del quotidiano di cui è imbevuta la Contea (quale riflessa anche dal recente libro La saggezza della Contea di Noble Smith, ed. Sperling & Kupfer) e dalla sorpresa/spaesamento di Bilbo (eccellente l’attore Martin Freeman), che si vede trascinato – nonostante il suo recondito desiderio d’avventura: il “lato Tuc” – nell’impresa dei Nani guidati da Thorin Scudodiquercia (interpretato da Richard Armitage), un personaggio tragico, diviso com’è tra un senso di profonda aretè eroica e il rimpianto per una pace e una sicurezza perdute. Gandalf (il sempre ottimo Ian Mc Kellen, ora ben doppiato da Gigi Proietti, essendo purtroppo deceduto il suo precedente doppiatore, Gianni Musy) è la Guida, e svolge – nel pieno rispetto della natura degli Stregoni – il suo compito di accompagnatore, che interviene solo nella misura necessaria a esortare l’iniziativa dei protagonisti e ad aiutarli quando sono veramente alle strette, affinché possano arrivare a compiere (loro, non lui) l’impresa di recuperare il tesoro dei Nani, sorvegliato dal drago Smaug nel cuore della Montagna Solitaria, Erebor.
Poi ci sono altri due livelli interpretativi, che sono per l’appunto quelli che più mi stanno a cuore quando scrivo narrativa: quello lirico e quello viscerale. Il primo attiene soprattutto agli Elfi (oltre che agli splendidi paesaggi neozelandesi, “prestati” ancora una volta alla Terra di Mezzo); il secondo principalmente a Gollum (nuovamente “messo addosso” al bravissimo attore Andy Serkis).
Gli Elfi trovano spazio soprattutto a Gran Burrone, dove incontriamo Elrond (Hugo Weaving) e Galadriel (Cate Blanchett – inserzione, questa, vòlta a creare un collegamento con la trilogia del Signore degli Anelli) – oltre ad un Saruman (scettico e razionalista, e forse inconsapevolmente – in quest’altra evidente variazione rispetto alla trama del romanzo – già preda dell’Ombra di cui al tempo della Guerra dell’Anello diventerà servo). Elrond, cauto e bilanciato nella sua natura di Mezzelfo, osserva e consiglia con occhio neutro e sensibile. Ma è Galadriel a interagire mentalmente con Gandalf, arrivando a comprendere ben oltre i limiti della visione ottusa di Saruman, laddove invece Gandalf, davanti a lei, si riconosce debitore della purezza e della capacità di amare la vita e le piccole cose del suo prescelto, Bilbo Baggins.
È così che si finisce nel livello viscerale. Bilbo, precipitato nelle profondità delle Montagne Nebbiose, incontra infatti Gollum, già lacerato dall’eterno dialogo/contrasto delle sue due metà, Servile e Scurrile, ma in qualche modo ancora vergine al dolore, all’autentica lacerazione interiore, che è quella su cui si gioca il destino di ogni uomo. Infatti è la sottrazione/“furto” dell’Anello da parte di Bilbo a innescare in lui il dramma dello sradicamento, mentre, paradossalmente, rende Bilbo più “intero”, più consapevole e più coraggioso (come ben presto dimostrerà, nello scontro finale con gli Orchi e i Mannari). Gollum è la porta del cuore sanguinante dell’uomo – che è poi il punto da cui nasce l’Arte: non a caso si colloca proprio qui la scintilla di energia da cui nascerà il Signore degli Anelli.
La parte finale del primo episodio di questa trilogia ha l’andamento di un crescendo esaltante e perfettamente calibrato, che – nonostante l’inserzione del personaggio di Azog il Profanatore, Orco in realtà menzionato da Tolkien nelle Appendici al Signore degli Anelli – rispecchia in pieno lo spirito dell’epica tolkieniana, continuamente sospesa tra l’incertezza degli eventi (e la radicalità dell’abisso a cui possono portare) e la sorpresa della Liberazione (interiore e non): quell’anima mistica, implicita eppur evidentissima, incarnata dalle Aquile salvatrici, protagoniste dell’Eucatastrofe conclusiva.
Infine, c’è un tema, fondamentale, che nel Signore degli Anelli troverà il suo pieno sviluppo, nel rapporto tra Frodo e Sam, come anche – sia pur in forma “distorta” – in quello tra Frodo e Gollum: il confine tra l’individualità e l’Altro. Qui esso è magistralmente colto dal binomio Bilbo-Thorin. La loro non è solo la storia di un’amicizia contrastata. È il segno di come la crescita dell’individuo (Bilbo) passi necessariamente per due elementi in apparenza antitetici, ma in realtà complementari: l’andare avanti e il restare, il dimenticare il “noi” (la Compagnia) per calarsi nel Sé, salvo poi ricordarsi che, appunto nel Sé, ovvero nell’intimo, si è in contatto con loro (ed ecco il gesto di coraggio finale di Bilbo per Thorin, altra novità rispetto al libro).
A Peter Jackson e ai suoi collaboratori il merito di aver colto, insieme alla forza vibrante delle avventure di Bilbo, Gandalf e i Nani, la loro complessa ricchezza archetipica. Resta inteso che questo è un bel film, ma figlio di una visione delle vicende de Lo Hobbit già matura, ovvero perfettamente inserita in un quadro di eventi che partono dalla creazione di Arda (la Terra) e si compiono con la fine della Guerra dell’Anello. Per questo non riproduce esattamente – e non avrebbe senso pretenderlo – le stesse vibrazioni suscitate dalla lettura de Lo Hobbit di J.R.R. Tolkien.
Grande articolo Giovanni! e’ vero..”l’allungamento” in tre film sarebbe stato assurdo se Jackson si fosse limitato a realizzare visivamente il libro, invece è un ‘occasione per vedere episodi che fanno parte di altre opere di Tolkien. Solo una cosa: ho interpretato l’atteggiamento di Saruman (e mi fa effetto pensare che Cristopher Lee è stato cliente di mio padre che era avvocato) più che come ottusità come il segno che in lui stava già maturando il seme del tradimento. E’ corretto secondo te?
Grazie, Luca!
Riguardo a Saruman, credo che le due cose vadano insieme. Cioè, una mente esclusivamente razionale, priva di qualunque sensibilità intuitiva, cade facilmente preda di oscurantismi di ogni tipo. Non penso che, al momento degli eventi de “Lo Hobbit”, Saruman avesse già maturato consapevolmente l’idea di tradire, ma certo in lui era, in qualche modo, latente. Come se ne fosse un “portatore sano”.
Davvero, fa impressione pensare che Christopher Lee sia stato un cliente di tuo padre! 🙂
A presto!
Giovanni
No..spiego perchè altrimenti non si capisce…Mi riferisco a circa vent’anni fa; questo perchè in quel periodo mio padre era l’unico avvocato qui da noi capace di esprimersi in lingua inglese. Lee aveva degli interessi da curare nella nostra zona e quindi si rivolse a lui. Comunque ho letto da qualche parte che Lee legge il Signore degli Anelli almeno una volta all’anno. ciauu
Beh, alla luce di questo, capisco ancor più il tuo coinvolgimento!
Sì, sapevo delle frequenti riletture tolkieniane di Lee.
Un salutone!
anch’io l’ho trovato bellissimo. Qui c’è la mia recensione 😉
http://firstimpressions86.blogspot.it/2012/12/the-hobbit-unexpected-journey.html
Complimenti a Giovanni per la recensione approfondita e che mi trova d’accordo in pieno.
Grazie ad Alessia e a Krishna!
No, no, no! “Il Negromante, cioè Saruman”: hai ufficialmente spoilerato! Tiratina d’orecchie 😉
Io non sono invece molto soddisfatta della trasposizione. Il film è godibilissimo e divertente e io da fan l’ho apprezzato, però è andata persa gran parte dell’atmosfera del romanzo, a favore di quella del successivo SdA (non chiamatelo sequel, vi prego!). Buona visione! 🙂
Scusa, Ire, ma quando mai ho scritto che Saruman è il Negromante? Al limite Sauron. E poi questo non è spoilerare: è come se uno non dovesse dire come va a finire la Divina Commedia o l’Odissea per paura di sciupare l’effetto finale. Non si leggono certe storie o vedono certi libri per vedere “come va a finire”, ma per gustare un’esperienza di “viaggio” (non solo a livello di “trama”, ma anche e soprattutto a livello emotivo e profondo)… e si sa, quando si viaggia, l’importante non è tanto la meta, quanto il percorso.
Certamente, il “Signore degli Anelli” non è il sequel, ma il “seguito”, o meglio ancora la “continuazione” delle vicende de “Lo Hobbit”, e infatti mi sono ben guardato dall’usare quella parola (“sequel”). Anche se – come ho voluto sottolineare nella recensione – uno dei pregi di questo film è proprio quello di rendere la sostanziale “contemporaneità” (a livello percettivo e archetipico) di tutti i livelli e le fasi del Legendarium tolkieniano (ivi inclusi “S.D.A.” e “Silmarillion”), dove ogni singolo momento è come impregnato di tutta la storia che c’è dietro (e davanti), per cui lo si apprezza appieno alla luce della complessiva storia di Arda.
Ciao Giovanni! Hai ragione, ho sbagliato a scrivere (Saruman versus Sauron)! Comunque scusami tu, c’è stato evidentemente un fraintendimento, lungi da me sgridarti (passami il termine), volevo solo condividere un’impressione, un commento, e ironizzavo sullo spoiler, perché ho visto in molti commenti questa specie di spiegazione e mi ha fatto sorridere! Anche quando ho detto “non chiamatelo sequel” non mi riferivo a te! Siamo tra “amici”, no? Però hai ragione, è talmente tanto importante il viaggio che ogni volta che vedo un film o leggo un romanzo spero che nel frattempo sia cambiato e che la storia sia diversa. Forse per quello è troppo facile spoilerarmi 😉 un abbraccio e spero di aver chiarito, non c’era nessuna malizia o polemica! Ciao di nuovo!
Tranquilla, Ire, nessun problema!
Il bello di Tolkien e della sua narrativa è che dà sempre il senso di una “nuova possibilità”. Si ri-crea costantemente, come in una “liturgia narrativa”, mi si passi il termine solo apparentemente blasfemo, che ricelebrando ogni volta, fa ri-esistere quello che è stato e che, fondamentalmente, appartiene a una dimensione intima.
comunque se lo si vede una seconda volta si capisce molto bene come i tre film abbiano lo scopo di preparare lo spettatore a vedere poi (anche se lo abbiamo visto prima) il Signore degli Anelli; ma nonostante ciò l’Hobbit viaggerà per conto suo..Io ci spero che qualche personaggio ad un certo punto citi Beren e Luthien e che questo consenta di “vedere” uno degli espisodi più belli di Tolkien..Notate poi come la musica del grandissimo Shore…annunci i temi, senza svilupparli, cosa che sappiamo Shore farà nel “Signore “
Giusto, Luca, condivido tutto! E sono convinto che la prossima tappa saranno necessariamente le grandi saghe del Silmarillion 🙂
Invece devo constatare di essere fondamentalmente in disaccordo. È proprio lo spirito che non ho visto nel film. Tralasciando le modifiche alla trama e pure alla cronologia della Terza Era, nonché le falle logiche presenti nella sceneggiatura e l’ulteriore svilimento delle aquile a servizio di aerotaxi senza potere decisionale, il film è stato reso epico e possente per raccordarlo al Signore degli Anelli. Solo che lo Hobbit, almeno per i primi due terzi, tutto è tranne che epico e possente. Non sto parlando delle scene del Bianco Consiglio, ma proprio dei Nani. In particolar modo Thorin, che è stato reso una specie di Aragorn in miniatura, ma senza i conflitti interiori che avevano reso più umana la figura dell’Aragorn vero e proprio nei precedenti film. Thorin, da quel che si vede sia nello Hobbit che nei Racconti Incompiuti, non è una grande capo carismatico, è solo un vecchio nano (sì, vecchio, più vecchio di Balin, ad essere pignoli), assai presuntuoso, che vive nei ricordi e si crogiola nella sua ossessione della Montagna Solitaria. Anche l’inserimento di una fantomatica nemesi storica (Azog, l’orco che doveva essere morto da più di un secolo) ha la sola funzione di nobilitarlo ulteriormente, rendendolo simile ad un eroe tragico, oltre che fornire a Bilbo l’occasione prematura di utilizzare Pungolo. Anche Bilbo, sebbene azzeccatissimo come casting ed eccezionale nell’interpretazione, è stato cambiata un po’. La sua nostalgia di casa è stata sbrigata in un paio di scene, mentre nel libro è costante, ed anche il suo percorso psicologico è stato enormemente accelerato. Si è voluto incentrare il suo impegno nell’impresa in una volontà caritatevole di ridare una casa ai nani (che una casa in verità già ce l’avevano, in special modo i più giovani) nascondendo quello che è il carattere vero e proprio di Bilbo, il suo essere sia Tuc che Baggins, ovvero la predisposizione alle avventure unita all’imperativo categorico di mantenere un impegno preso, costi quel che costi, come si conviene ad un hobbit rispettabile. Nel libro Bilbo pensa costantemente al focolare, ma mai, in nessun caso, prepara i bagagli per filarsela alla chetichella, neppure quando viene preso a male parole dai nani (cosa che del resto succede costantemente). Che il film fosse concitato e pieno di azione me lo aspettavo, Peter Jackson ha l’argentovivo addosso, ma qui ha esagerato. Inoltre le strizzatine d’occhio agli altri film sono un po’ troppe, a volte anche a scapito della comprensione. Per esempio, quando Bilbo mette l’anello (allo stesso modo esatto di Frodo nella Compagnia dell’Anello) non è assolutamente chiaro che sia diventato invisibile. Lo sa chi ha letto il libro, lo immagina chi ha visto gli altri film, ma chi non ha fatto né l’una né l’altra cosa ha difficoltà, lo ha notato un mio amico che si è trovato a dover spiegare alla sua ragazza cosa stava succedendo.
Ciao, Francesco, grazie delle tue osservazioni, che in realtà sono tutte pertinenti, non posso negarlo. Io ho cercato di non pensare al libro, mentre guardavo il film, insomma di apprezzarlo come “film”, non come “film tratto da”.
Parliamoci chiaro, se si fosse voluto fare un film su “Lo Hobbit” restando aderenti al 100% con il romanzo di Tolkien, col cavolo che lo si sarebbe potuto dividere in tre parti. Io, a bocce ferme, ne avrei fatto uno solo. Sarebbe stata (e – per carità – ce ne fossero!) un’opera più intimistica e meno avventurosa, e anche meno “consapevole”, rispetto agli sviluppi futuri degli eventi della Terra di Mezzo (che del resto Tolkien stesso non aveva chiari, mentre scriveva “Lo Hobbit”). Resta il fatto che, così com’è, il film mi è piaciuto.
Secondo me…la coerenza va ricercata non con il lavoro di Tolkien, perchè altrimenti non fosse altro che per lo skateboard di Legolas al Fosso di Helm dovremmo chiudere baracca e burattini 🙂 Jackson ha ricercato la coerenza con il suo Signore, ovvero si è preoccupato, anzi si sta preoccupando di far collimare, diciamo così, l’Hobbit con quanto già realizzato in modo che quest’ultimo prepari gli Anelli e, alla fine, i suoi sei film possano apparire come un unico prodotto; almeno mi pare questa l’impressione…
Sono d’accordo, Luca. E devo dire che in questo sta riuscendo molto bene, peraltro senza mancar di rispetto allo spirito dell’opera tolkieniana.